Una interessante sentenza della Cassazione Lavoro, la n°27420 del 1/12/2020, afferma che non si può essere allo stesso tempo dipendenti pubblici e imprenditori agricoli conferendo una interpretazione interessante ad una disciplina che nel tempo non ha registrato pronunciamenti omogenei ricostruendosi nel contempo l’intero quadro normativo.
Anche se l'attività agricola non è espressamente menzionata tra le attività incompatibili indicate dall'articolo 60 del D.P.R. n. 3 del 10 gennaio 1957, il divieto di esercitare "il commercio, l'industria, né alcuna professione" - chiarisce la Suprema corte - va interpretato "in un senso più aderente alla realtà attuale", e allora non può che intendersi riferito anche alla impresa agricola.
Si deve infatti tenere conto, "di quella che era la struttura economico-sociale del Paese negli anni ‘50", quando cioè fu emanata la norma.
All'epoca "quasi ogni famiglia, a vario titolo - prosegue la decisione -,
era implicata nell'agricoltura, sicché se tale attività fosse stata inserita tra quelle incompatibili ne sarebbe derivata l'esclusione dall'impiego statale della maggior parte dei cittadini".
Ma "soprattutto" si deve tener conto di quella che è stata l’evoluzione dell’attività agricola sia attraverso la Legge n. 153 del 9 maggio 1975 "Attuazione delle direttive del Consiglio delle Comunità europee per la riforma dell’agricoltura" secondo la quale (art. 12) “la qualifica di imprenditore agricolo principale va riconosciuta a chi dedichi all’attività agricola almeno 2/3 del proprio tempo di lavoro complessivo e ricavi dall’attività medesima almeno i 2/3 del proprio reddito globale da lavoro risultante dalla propria posizione fiscale”, sia attraverso l’adeguamento di tale attività alle strutture societarie già presenti nel nostro ordinamento.
Quello che rileva, continua la decisione, "non è la remunerazione che il dipendente ottenga da un'attività esterna ma la sussistenza di un centro di interessi alternativo all'ufficio pubblico rivestito implicante un'attività che, in quanto caratterizzata da intensità, continuità e professionalità, pregiudicando il rispetto del dovere di esclusività, potrebbe turbare la
regolarità del servizio o attenuare l'indipendenza del lavoratore pubblico e conseguentemente il prestigio della P.A.".
VA GARANTITA L’ESCLUSIVITÀ DEL PUBBLICO DIPENDENTE
La ratio del divieto che, come detto, permane anche nel lavoro pubblico privatizzato, “è, infatti, da ricercare nel principio costituzionale di esclusività della prestazione lavorativa a favore del datore di lavoro pubblico che trova il proprio fondamento costituzionale nell’art. 98 della Costituzione con il quale i nostri Costituenti, nel prevedere che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione” hanno voluto rafforzare il principio di imparzialità di cui all’art. 97 della Costituzione, sottraendo tutti coloro che svolgono un’attività lavorativa “alle dipendenze” – in senso lato – delle Pubbliche Amministrazioni dai condizionamenti che potrebbero derivare dall’esercizio di altre attività (Cass. n. 12626 del 2020; n. 11949 del 2019; n. 3467 del 2019; n. 427 del 2019; n. 20880 del 2018; n. 28975 del 2017; n. 28797 del 2017; n. 8722 del 2017); "se il criterio guida è, dunque, l’interferenza sull’attività ordinaria del dipendente, anche la partecipazione in imprese agricole è da ritenere incompatibile con un rapporto di lavoro a tempo pieno laddove sussistano gli indicati caratteri della abitualità e professionalità, caratteri che la forma societaria prescelta fa indubbiamente presumere”.
SI ALLE DEROGHE PER CHI IN PART TIME
Affermano i giudici che sono fatte salve le deroghe con riguardo ai rapporti di lavoro del personale in part-time (ossia con prestazione lavorativa non superiore al 50% di quella a tempo pieno).